Dal 14 al 20 ottobre è partita quella che qualcuno potrebbe chiamare “avventura”, altri qualificano come “esperienza”, ma che nel gergo cristiano si suole definire “viaggio missionario a breve termine” alla volta di Sid, una piccola cittadina della Serbia presso cui è ubicato un campo per rifugiati. La necessità di costituire un presidio per queste persone nasce a causa della sua posizione geografica in quanto, confinando con la Croazia, rappresenta uno dei canali d’accesso per la “agognata” Europa. Fino al 9 marzo 2016 la cittadina è stata un nevralgico punto di passaggio per i molti pullman di migranti che attraversavano i Balcani, fungendo da pit stop, punto di sosta breve. Tuttavia da quando la Croazia, insieme a Slovenia, Macedonia ed altri Paesi hanno ufficialmente chiuso le frontiere, è stata preclusa a questi soggetti la possibilità di accedere in Europa e di crearsi un presente, prima ancora di un futuro.
È esattamente in questo scenario che si colloca l’esperienza dei tre volontari di OM Italia Toni, Jen e Sara, uniti insieme nell’unico intento di aiutare e sostenere – moralmente, emotivamente e spiritualmente – tutte le persone presenti nel campo. Al momento del loro arrivo sono circa 1.000 i rifugiati provenienti da diversi Paesi: la maggior parte mediorientali (Afghani, Iracheni, Iraniani, Siriani, Kurdi, Pakistani), ma non mancano Africani provenienti dalla Guinea, Somalia, Senegal e Ghana, tutti reduci da estenuanti viaggi durati svariati mesi. La tenda di OM si colloca all’interno di un’ampia struttura all’interno della quale collaborano più associazioni (tra cui Medici senza Frontiere, SOS children e Caritas), unite nell’intento di aiutare, ciascuno nel proprio specifico settore, persone la cui vita viene messa in stand – by da accordi comunitari e/o internazionali.
Operazione Mobilitazione presidia il campo, con una tenda all’interno della quale viene servito del tè a tutte le ore, dal primo mattino fino a sera. Ci sono 6 volontari (Hanah, Mirko, Mihalo, Vladimir, Mihalo e Paul), presenti ogni giorno, tutti i giorni, con i quali Toni, Jen e Sara hanno collaborato. Alla équipe così composta si sono aggiunti, seppur per soli due giorni, nove missionari brasiliani.
Sin dal primo giorno i ragazzi sono stati accolti con grande affetto da tutte le persone presenti al campo; per sciogliere il ghiaccio è bastato un sorriso, una chiacchiera e talvolta soltanto un occhiolino complice. Spontanea ed entusiasta è stata l’accoglienza dei bambini, che nel giro di pochi minuti hanno accerchiato i nuovi volontari facendo loro molte domande e proponendo una serie di giochi da fare insieme. Piccoli gesti che nascondo un grande bisogno di affetto e di calore, e dai quali si evince la necessità di sentirsi parte di un qualcosa, di una comunità, di sentirsi dire che c’è ancora speranza. La cosa interessante è che questi bisogni affettivi e manifestazioni di entusiasmo non sono, però, degenerati in mancanza di rispetto o spirito di prevaricazione, tutt’altro: c’è sempre stato, da parte di queste persone, un forte senso di rispetto ed educazione. Memorabile è stata la scena di un bambino di soli undici anni che ha offerto la sua colazione – un semplice panino con la marmellata – ad uno dei volontari. Si tratta di un semplice aneddoto dal quale si percepisce un forte senso di gratitudine, rispetto ed educazione, perché “profugo” è innanzitutto persona, con tutto il bagaglio educativo e culturale che si porta dietro.
Oltre a servire tè i volontari si sono dedicati al “contatto” con le persone, allo scambio di esperienze e di confidenze, attività che hanno portato man mano alla instaurazione di rapporti di fiducia e di amicizia. È proprio in questi momenti che ci si è resi conto del dramma che si nasconde dietro gli occhi e ai sorrisi di quelle persone: il dramma di persone che hanno visto i propri cari seviziati dai Talebani, il dramma di ragazzini di 11 e 13 anni completamente soli, costretti a fuggire dai propri Paesi vittime di regimi totalitari o di millantate democrazie dietro cui si nasconde una spietata dittatura ( si pensi all’Afghanistan, ufficialmente “Stato Repubblicano”); il dramma di giovani costretti ad attraversare il deserto del Sahara, con il solo ausilio dei propri piedi e delle proprie forze fisiche, che hanno visto amici e parenti morire di sete a causa delle elevatissime temperature e della mancanza di acqua, in fuga da guerre civili delle quali l’uomo medio neppure è a conoscenza; il dramma di uomini e donne di cultura, professionalmente preparati e benestanti, che hanno dovuto lasciare il proprio lavoro e le loro aspirazioni di carriera perché la loro sede lavorativa è diventata bersaglio di questo o quel gruppo rivoluzionario o insurrezionale; ancora, il dramma di giovani uomini costretti a fuggire da Paesi non laici in cui la mancata adesione alla religione di Stato comporta persecuzioni. In particolare, durante quei giorni al campo i ragazzi hanno avuto l’onore di ascoltare la testimonianza di un ragazzo in fuga dall’Iran, costretto a scappare dal proprio Paese perché ha cominciato a leggere la Bibbia ed a frequentare una chiesa cristiana. Durante il lungo tragitto è stato derubato, restando solo, spogliato di tutto, fuorché il Vangelo: gli hanno preso tutto, tranne il Parola di Dio, che non lo ha lasciato e non lo ha abbandonato. Ma vi è di più: i volontari hanno avuto la gioia e l’onore di essere presenti proprio al giorno della sua conversione, del suo abbandono a Cristo, esperienza celestiale che egli ha sintetizzato con queste semplici parole: “oggi finalmente ho capito che Dio è il Padre, ma Gesù è il Dono”.
È solo uno dei moltissimi episodi ed aneddoti che le persone del campo hanno condiviso con Toni, Jen e Sara, uno dei tanti che hanno arricchito il loro bagaglio di vita, allargato gli orizzonti ed ampliato le loro prospettive spirituali.
Ecco perché, quella vissuta in questi sei giorni non può riduttivamente definirsi esperienza, ma “viaggio missionario”: perché attraverso di esso è possibile capire, o forse chiarire, la chiamata che Dio ha rivolto a ciascuno; è possibile mettere il proprio talento al servizio di Dio e al servizio degli altri (emblematici i momenti in cui Jen, con il suo talento musicale e canoro, ha regalato allegria e spensieratezza a tutte le persone presenti nella tenda); è possibile rinsaldare il proprio rapporto con il Signore mediante la comunione fraterna; è possibile sperimentare il profondo senso di gratitudine che dovrebbe accomunare tutti i figli di Dio ed ancor più tutti coloro che hanno avuto il privilegio di vivere in Paesi democratici e benestanti, senso di gratitudine che talvolta, di fronte alla ”ovvietà” della vita, si corre il rischio di dimenticare.
Questi sono soltanto alcuni dei benefici che un’esperienza di questo genere può apportare nella vita di chi si dispone. Quello fatto da Toni, Jen e Sara è un viaggio che si può tranquillamente definire “alla portata di tutti”; un viaggio non riservato esclusivamente a coloro che Dio ha chiamato al ministerio missionario, ma anche a chi, come chi scrive, è in attesa della “chiamata” personale che Dio le ha rivolto, e che, intanto, cerca di mettere in atto l’esortazione fatta dal re Salomone: “tutto quello che la tua mano trova da fare, fallo con tutte le tue forze” (Eccl. 9:10).
Dio ci benedica,